
Una notte ho sognato un bambino, da solo giocava in mezzo al prato. Aveva gli occhi chiusi, sfiorava i petali.
Mi chiese: “come sono questi fiori?” “Belli”. Gli risposi.
“Perchè sono belli”?, mi guardava con gli occhi chiusi
e mi sentii stringere il cuore. “Perchè sono colorati di giallo, rosso, verde e blu”. Risposi
“E com’è il Giallo? Il rosso? Il verde? Il blu?” Mi chiese,
mi guardava con gli occhi chiusi
e mi sentii mancare il fiato.
“Non lo so”. Risposi. “Te lo spiego io”. Mi disse.
Con gli occhi chiusi si avvicinò a me, mi fece sedere.
Mi chiuse gli occhi, mi accarezzò, mi baciò, mi abbracciò.
Con gli occhi chiusi sorrideva.
la mattina mi svegliai e mi accorsi che avevo ancora gli occhi chiusi.
Provai ad aprirli ma non ci riuscii. Provai ad immagginare ma non ci riuscii.
Con gli occhi chiusi non ho ancora imparato a sorridere
Antonio Sabia
“Il buio che insegna”. Una giornata insolita, una testimonianza unica.
Abbiamo sempre raccontato il Servizio Civile come una grande opportunità: una prospettiva di crescita e formazione per i giovani volontari. “MA”, come in ogni rapporto, la reciprocità è l’anello forte di una catena che sostiene un percorso di crescita e comprensione condiviso …
Alcuni dei nostri volontari in Servizio Civile, grazie all’accoglienza dell’Istituto dei ciechi Sant’Alessio, hanno potuto vivere un’esperienza del tutto insolita. Muoversi e fare cose nel buio. Un buio totale.
Francesca. La sua esperienza …
“Tra chi vede e chi non vede ho sempre pensato ci fosse di mezzo una negazione. Da una parte un mondo dato e visibile, un mondo visto nella sua pienezza, dall’altra il vuoto: niente forme, niente linee, niente colori. La negazione, appunto.
Poi, in maniera del tutto inaspettata, grazie al mio servizio al Vides, ho avuto modo di trascorrere una mattinata particolare, destabilizzante, all’Istituto per Ciechi Sant’Alessio di Roma. Il programma era quello di vivere, insieme ad un gruppo composto da una trentina di persone vedenti, qualche ora al buio: non era chiaro cosa avremmo fatto, l’unica certezza era che l’avremmo fatto al buio. Appena arrivati, i non vedenti dell’Istituto fanno una breve introduzione, e ci fanno dono del loro speciale bastone. Dopodichè, senza troppi giri di parole, siamo guidati verso un corridoio, da cui accederemo ad una camera oscura. L’ingresso nella stanza, appositamente allestita per i vedenti, è organizzato in modo da sottrarre gradualmente la luce: un’illuminazione via via più soffusa, fino ad una tenda scura oltre la quale un corrimano breve, poi il nulla.
Così, finito l’ultimo tratto, una fila indiana di persone sfuma fino a perdersi letteralmente nel vuoto.
Raccontare quello che segue non è del tutto semplice, ma il ricordo è ancora vivido, nonostante sia passato del tempo. Siamo in gruppo, ormai oltre la tenda scura, e con il buio ho come la sensazione che siamo aumentati. C’è un vociare confuso, eppure si sentono distintamente respiri affannosi, risate nervose. Qualcuno ha desistito all’ultimo momento, è rimasto fuori dove si vede tutto, forse gli racconteranno qualcosa.
In breve, mi ritrovo da sola e non voglio lasciare la mano della mia collega, entrata con me. Ma presto veniamo divise, e guidate separatamente da due persone che sono a loro agio in quel buio, che in quel buio per me angosciante sanno muoversi perfettamente. Sembra essere tornato un qualche margine di controllo e, anche se la persona che mi guida, Marisa, non mi dà la mano, la sua voce è come un contatto, è decisa, rassicurante. Sono condotta al centro della stanza ( ma lo capirò solo in un secondo momento), la mia guida mi dice che dovrò trovare da sola una sedia, e un tavolo.
La sensazione che provo è strana, confusa. Sono al buio e faccio fatica ad accettarlo. Per di più, avverto gli altri che mi si muovono intorno, mi urtano, e il rumore dominante diventa quello dei bastoni che abbiamo tutti in mano, e con cui picchiamo a terra, su quell’unico strato che sentiamo a farci da sponda. Sento il bisogno di cercare qualcosa, un appiglio, un posto in cui rifugiarmi, un angolo in cui non venga travolta da qualcuno. Questa condizione di vulnerabilità a tratti mi indispettisce, e penso di chiedere di uscire, ma un istinto che sul momento non so interpretare mi trattiene, così decido di restare. Finalmente tocco una sedia, prendo posto e capisco che ho un tavolo davanti a me, e altre persone accanto, perché le voci che sento sono più delineate di prima, di quando mi muovevo confusamente.
Adesso sono seduta. Sembra essere tornata la pace. Illusoriamente penso sia finita qui, forse ci racconteranno qualcosa e poi diranno che l’esperimento è finito, tornerà la luce e usciremo da questa stanza.
Ma non è vero, una voce decisa irrompe. E’ Salvaotre, uno dei cechi che ci ha condotti verso i tavoli. Ci dice che dovremo sederci seguendo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, disponendoci in senso orario intorno al tavolo. Non so come ma ci riusciamo, così torniamo a sederci, e nel frattempo abbiamo anche memorizzato i nostri nomi, così allunghiamo le mani verso il centro del tavolo per toccarci, perché adesso è il tatto il senso principale di cui disponiamo, quello su cui possiamo fare affidamento.
Il programma della giornata prevede che ogni tavolo, in cui capiamo sono sedute sei o otto persone, svolga delle attività di gruppo, come ricomporre una matriosca fornita dalla guida, dipanare una corda e comporne un quadrato, mangiare una crostata o versare e quindi bere del the o del caffè.
Ebbene, quello che emerge in questi frangenti è un graduale adattamento alla nuova condizione: rapidamente, nel gruppo si fa strada l’iniziativa, ognuno offre suggerimenti, si tenta di sopperire alla mancanza di luce come si può. Se ci fosse bisogno di dirlo, non è affatto semplice costruire al buio un quadrato con una corda: occorre alzarsi in piedi, disporsi in maniera coerente, misurare col tatto lati che risultino uguali. L’atto semplice del condividere una colazione poi è tremendamente difficile: chi ha il coraggio di prendere in mano il coltello per affettare la crostata? Come faremo a capire che stiamo effettivamente versando il the nella tazza? L’unico modo è darsi una mano, aiutarsi, frazionare le azioni in piccoli movimenti oculati, misurare con l’ascolto il giusto intervallo di tempo del the che riempie la tazza. Ma non c’è verso di farlo da soli, occorre aiutarsi.
Tuttavia, non è un’esperienza facile da raccontare: non lo è perché, dotati della vista, non ci rendiamo conto di quanto la nostra esperienza sensibile ne sia intrisa, irriducibilmente. Il linguaggio stesso è a volte anche ridondante in questo senso (“Guardami in faccia”, “Non vedi che stai sbagliando?”), al punto che espressioni che richiamino la vista, il vedere, i dati visivi ricorrono anche al buio (il mio vicino di tavolo continuava a dirmi “Hai visto la tazzina? L’ho messa proprio davanti a te!”).
Perciò, tutto quello che ho potuto imparare, per quanto possibile, non è facilmente comprensibile senza passare nella camera buia. Il buio di cui parlo, infatti, è un buio che da vedenti non sperimentiamo pressoché mai. Non è il buio delle persiane abbassate di notte per dormire, né tantomeno quello che crediamo di vedere quando chiudiamo gli occhi. E’ un buio più netto, assoluto. Un buio senza luce, un buio che non può essere relativizzato. E allora, quello che accade in una situazione simile è che il corpo, nel suo sostrato passivo, richiami la nostra attenzione, rivenga in superficie. Ogni sensazione si amplifica, ogni precedente configurazione necessita di essere rivista. Non potendo vedere dove termina il mio corpo e dove inizia la presenza di un’altra persona, devo cercare strumenti che non sono abituata ad utilizzare per potermi fare strada. Devo tendere una mano, cercare un contatto, drizzare le orecchie, aguzzare l’ingegno. Il più delle volte, ad insegnarmi dove sono sono gli altri e il loro essermi ostacoli, ma anche più fedeli alleati.
Succede così che il tatto, che generalmente confiniamo solo ad alcune sfere della nostra vita ed ad alcune relazioni più affettive e confidenziali, ritorni ad essere lo strumento primigenio e più affidabile perché altrettanto immediato che la vista. Si eliminano molte sovrastrutture legate al pudore, e si recupera un legame più viscerale con il mondo. Dal senso di angoscia derivato dalla privazione di un senso che è tiranno il più delle volte deve necessariamente sorgere la possibilità di una nuova risorsa, e si capisce come l’altro diventi fondamentale, come la fiducia non sia velleitaria, ma indispensabile. Riaffiora il nostro essere agiti dal mondo, e non solo parti attive di esso. Diventa importante che la persona a cui stringo la mano è al contempo la persona che stringe la mia, e il fatto che queste due percezioni non si integrino mai sincronicamente mi costringe a ripescare il mio fondo passivo, il mio essere cosa.
Ma forse, più di ogni altro, il senso che ho tratto da qualche ora all’Istituto Sant’Alessio è questo: che ci si può ritrovare al buio in qualsiasi momento. Quando la vita ti sottrae tutto quello che credevi di possedere, di sapere, di conoscere. Quando sei gettato di forza in un orizzonte nuovo, sconosciuto e il senso dato viene invalidato, distrutto. Quando capisci, e lo si capisce brutalmente, di essere un essere finito, vulnerabile, incapace di controllare ogni cosa, di vigilare su ogni cosa. E, molto spesso, da questo tipo di buio non si può decidere di uscire quando si vuole. Non c’è altra strada che passarci attraverso.
Forse non è così importante capire come termina l’esperienza nella camera buia: non è così importante sapere che quando vengono accese le candele la stanza appare molto più piccola di quanto si immaginasse. Marisa è una donna piccola e minuta, mentre io la immaginavo imponente, come la fiducia che ho riposto in lei. Non è importante perché Marisa imponente lo è davvero, e nella sua voce ho trovato percorsi più chiari di quelli che ho visto e percorso, fuori, alla luce.
Tra chi vede e chi non vede ho sempre pensato ci fosse di mezzo una negazione. Oggi invece no; oggi penso che siano due diverse affermazioni: E se in chi vede quest’affermazione di sé è scontata come lo è la vista, che al primo colpo d’occhio non deve esercitare nulla ma solo accogliere ciò che c’è, per chi non vede affermarsi richiede un esercizio tutt’altro che facile, che si struttura nel recupero di sfumature che noi, da vedenti, tendiamo a cancellare: la fiducia nell’altro, il potere di una descrizione, l’incisività di una voce, il calore umano del tatto.
Ecco, questo, sento di dire, è quello che ho imparato. Al buio”.
Francesca Gioia – progetto “E noi ci siamo” – sede di San Saba – Roma